PRIMA TAPPA: MALPENSA, TEL AVIV, EL AL
Questa volta il racconto inizia ancor prima che il viaggio vero e proprio inizi davvero. E precisamente a Malpensa, Varese, Italia. Fila check in 21.
Ma necessita di un antefatto. Questo: ci sono aziende che segnano la storia di un paese. E questo è spesso vero per le compagnie aeree (per favore astenersi commenti su Alitalia, please). E vale sicuramente per Israele e la sua linea aerea: EL AL.
Fondata nel ’48, subito dopo la nascita dello stato d’Istaele, ne ha accompagnato nei decenni lo sviluppo. Partecipando attivamente ad operazioni clandestine come l’operazione finale, tramite cui Adolf Eichman fu catturato in Argentina e trasportato su una aereo EL AL. E gestendo numerose operazioni di salvataggio, come l’operazione Salomone quando EL AL nel 1991 evacuò in un solo volo 1122 (!!) ebrei dallo Yemen.
Ma EL AL e’ soprattutto famosa per le sue leggendarie procedure di sicurezza. Ed e’ questa la ragione dell’antefatto.
Torniamo all’inizio: fila 22, Malpensa, Varese, Italia. E’ qui, che come da procedura standard, il personale di EL AL ci interroga separatamente prima del check in. Come da procedura standard; come per ogni singolo passeggero, per ogni singolo volo. Certo il nostro gruppo e’ un po’ anomalo: 4 amici, di cui tre in partenza insieme e una quarta che arriva separatamente; tutti viviamo in città diverse. Io parto da Milano, ma ritorno poi a Zurigo (paese neutrale…), Roberta e Giovanna, che sono pure bionde 😀, si sono conosciute questa mattina. Tutti e tre abbiamo visitato più o meno recentemente paesi mussulmani. Insomma, l’interrogatorio e’ lungo: dura 15 minuti, il confronto incrociato delle nostre risposte altri 10; prima di imbarcarci — saremmo gli ultimi — ci perquisiscono il bagaglio e anche le valige imbarcate verranno scrupolosamente aperte e controllate. E così sia: e’ il prezzo da pagare per visitare il paese e viaggiare con una compagnia che ha subito fin dagli anni 60 dirottamenti e episodi di terrorismo.
Alla fine qualche modo ce la facciamo: atterriamo e dopo altri controlli di sicurezza, la fatica di destreggiarsi durante lo shabbat, quando la maggior parte delle attività sono chiuse, eccoci a Tel Aviv.
E’ una città strana, non facilmente inquadrabile. Ha gli odori e i sapori, e anche la sporcizia, di una città medio orientale; per molti aspetti mi ricorda Atene. Ma ha anche l’ambizione di essere una città aperta e cosmopolita’, ricca e tech. Insomma, al primo squadro mi sembra a metà del guado fra Beirut e Miami, ma avrò tempo di studiarla meglio gli ultimi giorni del viaggio.
Perché ora dobbiamo prepararci alla seconda tappa del viaggio: la Galilea e poi l’ingresso in Giordania.
SECONDA TAPPA: LA GALILEA, CROSS BOARDER E MAR MORTO
Ora entriamo nel vivo del viaggio. Il nostro primo giorno e’ dedicato alla Galilea, la provincia nel nord di Israele dove Gesù Cristo visse e predicò per gran parte della sua vita. E che recentemente e’ divenuta nota per il vino di qualità. E’ una giornata piacevole, in mezzo ad una oasi di verde, simile alle colline della nostra Toscana, al centro invece nota per la sua siccità; affascinante la città di Accra, con i i suoi tratti arabeggianti, in riva al mediterraneo e famosa per essere stata teatro di scontri intorno all’anno 1000 fra i cavalieri templari e i combattenti mussulmani.
Ma la prima giornata e’ in verità sopratutto di preparazione alle successive, dedicati alla Giordania. E qui e’ necessaria una digressione per parlarvi di Re Hussein di Giordania, uno dei più interessanti protagonisti della politica mediorientale del 900. Salito al trono nel 1952, appena diciassettenne, viveur, pilota automobilistico, radioamatore, marito di 4 mogli e padre di 12 figli. Educato in Gran Bretagna e a suo agio con le élite occidentali, seppe però anche essere uno dei pochi difensori della causa palestinese ed e’ il fondatore della moderna Giordania, che seppe guidare con maestria attraverso le vicissitudini mediorientali. Sfuggì a dodici attentati ed era solito travestirsi da tassista per sapere dai suoi sudditi, in incognito, cosa pensassero del re e del suo regno. Ai suoi funerali fu salutato da 800 mila Giordania, e dai governanti di mezzo mondo, lui capo di stato di un paese storicamente e politicamente marginale. Uno dei suoi ultimi atti fu firmare gli accordi di pace fra Israele e Giordania nel 1994. Da allora i due paesi convivono pacificamente, sebbene metà della popolazione giordana sia costituita dada profughi palestinesi (ormai molti di seconda generazione). Di quanto sia difficile convivere in pace… ce ne accorgiamo anche noi poveri 3 viaggiatori, quando — il giorno di Pasqua — attraversiamo il confine.
Scegliamo il cross boarder centrale, quello di AllenBy Bridge.
E sembra di attraversare il confine fra due paesi sostanzialmente nemici casualmente in periodo di pace: come prima cosa vi e’ un posto di blocco dove ogni singola vettura viene controllata da militari israeliani in assetto da guerra; poi proseguendo per altri due o tre km, si arriva al confine israeliano vero e proprio, dove le macchine vanno lasciate, perché il confine non può essere attraversato in auto, e dopo l’ennesimo controllo dei passaporti un bus shuttle ci accompagna attraverso una zona desertica — sostanzialmente un corridoio demilitarizzato fra i due paesi lungo qualche chilometro -,fino al confine Giordano. Anche li ulteriori (meno per la verità) controlli e finalmente ci siamo.
E ora? E ora l’obiettivo era spaparanzarci in riva al Mar Morto, quando arriviamo, c’è un temporale che nemmeno quello di Noe’….e quindi la giornata prosegue così così maledicendo il tempo e guardandoci sospettosi l’un l’altro per sapere chi porta sfiga.
Ma domani è un altro giorno e domani ci sono il Wadi Rum e poi Petra.
TERZA TAPPA: IL DESERTO DEL WADI RUM E LA CITTA’ PERDUTA DI PETRA
Il nostro tour in Giordania si conclude con due gemme del medio oriente: il deserto del Wadi Rum e la città perduta di Petra. E ve ne parlerò raccontandovi a mia volta la storia di due fra i personaggi più affascinanti e misteriosi del secolo scorso: Lawrence D’Arabia e Johann Ludwig Burckhardt.
Lawrence D’Arabia, il più noto fra i due, fu tante cose: avventuriero e spia. Intellettuale e massone. Esploratore e letterato. Ma, soprattutto, fu l’ispiratore e la guida della rivolte delle tribù arabe contro il decadente impero ottomano. E per questo e’ considerato il padre del nascente nazionalismo arabo. Tutto iniziò quando Lawrence, archeologo e spia al servizio di sua maestà, divenne consigliere militare di Faysal, futuro primo monarca del regno d’Iraq e con il suo aiuto riuscì a creare una alleanza fra le frammentate tribù medio orientali e a scacciare gli ottomani. Lawrence divenne così un fervente sostenitore del nazionalismo arabo e, quando l’impero britannico, disattese le promesse fatte alle tribù e si rifiutò di cedere loro le terre conquistate, prese una posizione pubblica fortemente ostile al governo britannico, rifiuto le più alte onorificenze dell’impero; si narra che di fronte ad un esterrefatto Giorgio V rifiuto’ la prestigiosa Victoria Cross. E divenne scrittore pubblicando I sette pilastri sella saggezza, il libro che alla base del suo mito.
Burckhardt, meno noto di Lawrence, fu invece, senza esagerare, uno dei più grandi esploratori del ‘800. Come Lawrence irrequieto e ribelle; svizzero di nascita, studiò a Cambridge e poi si trasferì ad Aleppo convertendosi all’islam. Impara l’arabo, diventa un mago nei trasferimenti ed e’ così che nel 1812, nei pressi di Wadi Musa, quando sente parlare di fantastiche rovine nascoste nel deserto, si finge un Pellegrini desideroso di rendere omaggio alla tomba di Arianne e convince i beduini a fargli da guida. Ed e’ così che scopre la città perduta di Petra. Il suo libro Travela in Syria and the holy land e’ il racconto di questa straordinaria avventura. La parabola di Burckhardt non si fermò però a Petra ma prosegui’ in Africa alla ricerca delle sorgenti del Niger, in Egitto alla ricerca del tesoro di Ramses II, in Arabia per esplorare la Mecca e Medina. E si concluse nel modo più beffardo, ma comune per gli esploratori, i missionari e gli avventurieri che viaggiarono in Africa nell’800: mori’ al Cairo per un attacco di dissenteria a soli 33 anni.
Ma per fortuna i tempi sono cambiati, per noi poveri viaggiatori, che abbiamo avuto la fortuna di ammirare Petra insieme ad altri migliaia di turisti vocianti e urlanti e di ammirare il deserto risso del Wadi Rum, e’ tempo di tornare in Israele per proseguire il ns viaggio.
QUARTA TAPPA:GERUSALEMME
Gerusalemme è una città complessa. Forse, la più complicata fra quelle che ho visitato: più difficile delle megalopoli asiatiche che mi disorientano per la loro diversità linguistica e culturale; e più difficile delle metropoli sudamericane, minate dalla delinquenza dal degrado sociale. Mi ha disorientato e ha suscitato in me, lo ammetto, domande e dubbi. Cerco di spiegarvi perché.
Visitiamo la città in due giorni particolari: giovedì 25 e venerdì 26 aprile. Siamo durante la Pasqua Ebraica, che dura dieci giorni, durante la Pasqua ortodossa, che è posticipata di una settimana rispetto a quella cattolica, e siamo di venerdì, giorno di festa per i mussulmani. Non proprio, insomma, i giorni più adatti per un viaggiatore; la città vecchia è invasa da migliaia di fedeli di tutte le confessioni e la presenza delle forze di sicurezza è massiccia, sia presso i punti sensibili della città, come l’ingresso al muro del pianto, alla spianata della moschea o presso i check point fra Gerusalemme est da Gerusalemme ovest, sia nei vicoli e sui tetti delle case. In poche parole: si sente la presenza dei militari per le strade.
E questa è la prima sensazione nuova, che mi disorienta. Nelle nostre città — intendo, nelle città italiane e in quelle europee — ci siamo purtroppo abituati in questi anni alla presenza delle forze di polizie. Ma è nulla in confronto a quello a cui ho assistito in Israele, in particolare a Gerusalemme, dove la presenza dei militari, sia di quelli di leva — ragazzi di vent’anni con il mitra in mano — sia quelli di carriera, è invasiva. Parliamoci chiaro: Gerusalemme è una città divisa dal punto di vista culturale, sociale e anche geografico (fra Gerusalemme Est e Gerusalemme Ovest), convive con il rischio di attentati e con la consapevolezza che le tensioni politiche e religiose possono improvvisamente sfociare in scontri di piazza. Ma questa esibizione di forza e i controlli, a cui, in particolare, sono sottoposti i palestinesi, sono veramente necessari? E, a lungo termine non contribuiscono ad alimentare un clima di tensione perenne?
Le seconde domande riguardano l’aspetto religioso. Premessa: sono cattolico; ma lo sono, come quasi tutti in Europa e in Occidente, in modo — passatemi il termine — molto laico; la mia religiosità non è ostentata e non vado in chiesa con regolarità. Ecco, questo mio modo di vivere la religione è completamente agli antipodi rispetto a quello che ho visto a Gerusalemme. Dove la religiosità, sia quella dei pellegrini ortodossi, sia quella dei fedeli ebrei e mussulmani è ostentata ed esibita. E’ un fattore identitario ed è vissuta con una forza, a cui noi europei non siamo abituati. E’ una religiosità antica: nei riti, negli abiti da festa che vengono indossati, nelle lingue arcaiche che vengono usate, nei templi antichi e senza tempo.
QUINTA TAPPA: LA CISGIORDANIA, TEL AVIV E RITORNO
Siamo quasi arrivati alla fine del viaggio e mancano solo due tappe alla fine del mio racconto: la Cisgiordania e poi Tel Aviv.
Ve ne parlo all’interno del medesimo post, perché, insieme, racchiudono e svelano la complessità di questa terra.
Quindi partiamo: la Cisgiordania.
In seguito agli accordi di Oslo del 1993, che dovevano sancire il primo passo per la creazione di uno stato palestinese pienamente indipendente, questo territorio — West Bank, in inglese — è stato suddiviso in zone. Alcune sotto il completo controllo della autorità palestinese; altre, pur abitate dai palestinesi, sotto il pieno controllo israeliano; e infine altre in una situazione ibrida dove l’amministrazione è palestinese e il controllo militare è israeliano. Ma in verità la situazione è più’ sfumata: in buona parte della Cisgiordania sono presenti insediamenti di coloni israeliani, la maggior parte dei quali protetta dal famoso muro eretto da Israele a partire dal 2002, e il controllo militare israeliano è totale. La stessa libertà di movimento è limitata: l’ingresso a West Bank è proibito ai cittadini israeliani, mentre gli spostamenti degli stessi palestinesi sono limitati da numerosi check points e dalla massiccia presenza dei militari.
In Cisgiordania visitiamo il primo giorno Betlemme e il secondo Hebron.
A Betlemme ci accoglie la nostra guida: é un ragazzo palestinese, un infermiere che lavora come portiere, perché lavoro non ce n’è e lui non può’ uscire dai territori per trovare qualcosa di meglio. Nel tempo libero collabora con una ong che assiste un campo profughi, lo stesso dove lui è cresciuto, e fa la guida turistica. E’ un uomo appassionato e una guida preparata. Ed è un militante. Ci racconta delle difficoltà di vivere nei territori, dell’acqua razionata e dei continui controlli e delle perquisizioni militari. A Betlemme visitiamo prima il campo profughi, in sostanza un villaggio sovraffollato sotto il controllo militare israeliano con un presidio delle nazioni unite; e la basilica della natività, dove ci racconta che un suo famigliare era fra i militanti palestinesi catturati durante l’assedio alla basilica del 2002. E poi, nel pomeriggio visitiamo il famoso muro. La nostra guida è un uomo pacifico, che sogna solo di potere vivere in pace nella sua terra. Ma ascoltando le sue parole, osservando il suo sguardo, più’ volte ho intravisto quanto sia complicata la pace in queste terre. E mi sono tornate in mente le parole con cui Arafat si presento’ all’ONU quasi 50 anni fa: “Sono venuto qui con un ramo d’olivo in una mano e una pistola di un combattente per la libertà nell’altra. Non fate cadere il ramo d’olivo dalla mia mano”.