PRIMA TAPPA — UNA BIRRA A KHATMANDU

Volo sfortunato: partiti in ritardo da Istanbul, siamo poi stati costretti a girare per due d’ore in tondo sopra il Nepal, perché l’aeroporto non ci dava l’autorizzazione ad atterrare.

Ma almeno così ho potuto studiare e scoprire qualcosa di questo paese, il Nepal.

Circa 30 milioni di abitanti e stretto fra i due giganti asiatici, l’India e la Cina, e’ incastrato sotto l’Himalaya e ad una latitudine quasi tropicale . E questa sua posizione e’ contemporaneamente la sua fortuna e la sua sfortuna.

E’ la sua fortuna perché è un paese verdissimo, dove ortaggi e frutta, comprese banane, caffè e arance,crescono oltre i 2000 metri.

Ma e’ anche la sua sfortuna perché causa di terribili calamità naturali: i monsoni sono frequenti e quando le piogge incontrano la catena himalayana si trasformano in tempeste di ghiaccio; nel 2015 ad esempio, un un ciclone tropicale, abbattutasi contro l’Himalaya si trasformò in poche ore in una tempesta di ghiaccio che causo’ la caduta di 2 metri di neve e provocò numerose vittime.
Ed e’ sfortunata perché’ la
sua particolare posizione, incastrata fra l’Asia e il subcontinente indiano, la rende una terra a forte rischio sismico; L’ultimo dei quali, due anni fa, e’ stato terribile e ha devastato il paese.

Anche dal punto di vista sociale il paese e’ contrastato.

Fra i paesi più poveri dell’Asia, la sua economia si basa principalmente sull’agricoltura, il turismo e le rimesse in valuta pregiata dei napalesi immigrati all’estero. E politicamente e’ un casino. Anche qui l’influenza di Cina e India ne ha caratterizzato la storia: ora e’ un repubblica (malferma) dopo essere stato prima una monarchia e essere stato dominato negli anni 2000, con qualche decennio di ritardo rispetto al resto del mondo, dal partito maoista.

Scoprirò nei prossimi giorni quanto questo suo essere terra di frontiera, incrocio di culture diverse, stretto tra i tropici e le montagne più alte del mondo, sia, anche allo sguardo di un turista occidentale distratto, un tratto distintivo visibile nei tratti somatici del suo popolo, nella sua cultura e nelle sue tradizioni religiose, nei sapori dei suoi cibi.

Ora la torre di controllo ci ha finalmente dato il permesso di atterrare. Siamo arrivati a Khatmandu.

 

SECONDA TAPPA — DA KATHMANDU A BANDIPUR

Il secondo giorno entriamo nel vivo del viaggio con un programma intenso: Manakamana, Gorka and Bandipur.

Partiamo presto, quando il sole non è ancora sorto, e così abbiamo modo di osservare Kathmandu che si risveglia: i lavoratori della notte che tornano a casa e quelli del giorno che iniziano a spostarsi per la città; e, purtroppo, anche molti senza tetto che spengono il fuoco acceso durante la notte in mezzo alla strada per scaldarsi.
La prima,veloce, impressione di Khatmandu e’ che sia una città povera e sgarrupata, come solo le capitali di alcuni paesi del sud del mondo un paese possono essere. Mi ricorda un po’ La Paz in Bolivia.
Il popolo nepalese,invece — e sarà una impressione confermata nei giorni successivi — e’ gentile e accogliente. I suoi tratti somatici sono affascinati e figli di questo territorio strano, incastrato tra le montagne ma spesso pianeggiante, all’incrocio fra le culture, gli imperi e le religioni della grande Asia: nei loro volti vedi la storia dell’India e della Cina e talvolta puoi intravedere le pianure sterminate della Mongolia.

Ma mi sto distraendo; devo tornare alla nostra seconda tappa. Vi dicevo: Manikanda. E’ un piccolo villaggio imbarbicato tra le montagne, dove ogni nepalese vorrebbe andare una volta nella vita. E vorrebbe andarci perché c’è un tempio induista, dove la dea Bhagwati -così dice la tradizione — può realizzare ogni desideri odei fedeli, in cambio dei doni che vengono portati.
E i desideri, in effetti sono tanti perché la coda dei nepalesi di fronte al tempio e’ lunga qualche centinaio di metri e doni, comprese alcune carpette che verranno sacrificate, sono numerosi.
Rimaniamo qui qualche ora per poi spostarci prima a Gorka, una bellissima città imperiale, purtroppo fortemente danneggiata nel terremoto del 2015 e poi, per concludere con una lunga scarpinata per esplorare la grotta di , ancora poco sconosciuta e non invasa da orde di turisti.

Ed eccoci arrivati a Bandipur un bellissimo paesino di montagna.
Prossima desitinazione Pokhara vicino al massiccio dell’Annapurna.

TERZA TAPPA: POKHARA E LA STORIA DI TENZING NORGAY

Da Bandipur ci spostiamo a Pokhara, la seconda città nepalese situata sotto il massiccio dell’Annapurna, una catena di 54 km, che ospita alcune delle montagne più alte del mondo.
Ci fermeremo qui due giorni, con la speranza di potere intravedere alcune di queste vette. Ma non sarà così semplice: le nuvole, la foschia e l’inquinamento le tengono nascoste e vederle sarà una battaglia, di cui vi parlerò la prossima volta.

Perché oggi vorrei invece raccontarvi una storia: quella della di uno degli uomini più influenti del ‘900. Il suo nome e’ Tenzing Norgay.

Tenzing e’ un figlio dell’Himalaya: nasce in Tibet nel 1913 o forse nell 1914 e trascorre tutta la sua esistenza in mezzo a queste montagne, fra India, Tibet e Nepal. Il suo nome e’ legato ad una delle più importanti esplorazioni della storia dell’uomo: la conquista dell’Everest.

Nella prima metà del ‘900 furono numerosi i tentativi di compiere questa impresa; non erano, come ora, scalate, quasi, in solitaria, ma vere e proprie spedizioni organizzate dagli Stati dotate di risorse importanti e seguite dal grande pubblico. Un po’ come furono la conquista delle sorgenti del Nilo e quella dell’Antartide. La spedizione inglese di John Hunt, quella coronata dal successo, impegnò, fra membri effettivi, portatori e guide sherpa più di 400 persone per circa 5 tonnellate di equipaggiamento.

Norgay non è inglese, né svizzero — le due nazioni che più si impegnarono in questa impresa — e quando inizia ad accarezzare il suo sogno non ha nemmeno molta esperienza come scalatore; così riesce solo a farsi assumere, con fatica, come portatore. Ma ha talento, è infaticabile e per giunta non si infortuna mai (si dice che in tutta la sua carriera non si infortunò mai) e quindi piano piano da semplice portatore guadagna piano piano la fiducia e la stima di quel mondo di avventurieri. E quando, nella spedizione organizzata nel ’53, Hunt dovette scegliere due scalatori per compiere la scalata di quei fatidici ultimi 150 metri che portarono dall’ultimo campo base allestito a 8400 metri alla cima dell’Everest, questi scelse lui e Edmund Hilary. E vi riuscirono, raggiungendo, dopo una notte terribile passata in tenda (con l’attrezzatura che potete vedere nella foto!), la vetta il 23 maggio del 1953.

Dopo questa impresa venne la gloria. E Time lo scelse fra i 100 uomini più influenti del ventunesimo secolo e alla sua morte nel 1986 il corteo funebre si dipanò per chilometri.

Ma perché ho raccontato brevemente la sua biografia? SPer due motivi.

Il primo e’ perché la storia, almeno quella occidentale, ricorda Tenzing Norgay come il secondo, non come il primo. Il primo é Edmund Hilary. Ed e’ uno strano destino, una beffa, quello che accomuna quegli individui eccezionali che compiono imprese eccezionali e poi, non si sa perché, vengono relegati a pie’ pagina. Pensateci bene: qualcuno di voi ricorda i nomi degli astronauti che allunarono insieme a Neil Armstrong?

Il secondo e’ che quando arrivò in cima all’Everest, Norgay lasciò tre bandierine: quella del Nepal, dell’India e delle Nazioni Unite. Quasi a testimoniare che quella montagne, e la natura in generale. appartiene a tutti noi. Dovremmo averne più cura.

QUARTA TAPPA: L’ANNAPURNA E POI LOUMBINI E CHITWAN

L’Annapurna e’ un massiccio montuoso di 54 km situato nel Nepal centrale di fronte a Pokhara. E’ famoso perché la sua montagna più alta, l’Annapurna I, e’ stato il primo 8000 ad essere scalato nel 1950, da due francesi, Herzog e Lachenal, che riuscirono ad arrivare sulla vetta, ma rischiarono di morire assiderati (Lachenal subì l’amputazione di entrambi i piedi). E detiene il triste record di avere la più alta percentuale fra vittime e scalatori giunti sulla vetta: il 40%. Io massiccio montuoso e’ composto da 6 picchi, tutti al di sopra i 7000 metri.

Noi abbiamo la fortuna di potere ammirare queste vette l’ultimo giorno a Pokhara: il programma prevede una levataccia alle 4 di mattina per raggiungere Sarangkot, un villaggio, a circa 1600 metri, situato di fronte all’Annapurna, famoso per la vista che offre la mattina all’alba. E infatti lo spettacolo è emozionante: il sole, che sorge da est, dipinge di rosa le montagne e mentre l’aurora diventa l’alba, e infine il sole sorge all’orizzonte, la nebbia si dirada e la luce svela la potenza dell’Annapurna e il fascino del tetto del mondo. Quello che mi stupisce di più e’ il contrasto fra le cime che si ergono di fronte a noi, maestose, imponenti, imbiancate di neve perenne, e il paesaggio circostante che è verde e rigoglioso come si confà ad un clima quasi tropicale.

Rimaniamo a osservare questo spettacolo finché il sole non si alza all’orizzonte; ci aspetta ora un trasferimento impegnativo per arrivare a Loumbini, la città natale del principe Sidhartha, conosciuto poi con il nome di Buddha.

Il viaggio dura dieci ore, fra passi di montagna, strade sterrate e dissestate e code interminabili di camion, van e automobili che cercano di attraversare il paese. Valichiamo passi e attraversiamo piccoli villaggi, dove abbiamo modo di osservare uno stile di vita più semplice e, purtroppo, anche più povero. Arriviamo a Loumbini che ormai è buio e visitiamo il complesso buddista il giorno dopo. Accanto alle rovine della casa di Sidhartha e’ stato costruito un complesso imponente, progettato dal famoso archistar Kenzo Tange, dove le comunità buddiste hanno eretto templi e luoghi di culto per mostrare al mondo e ai fedeli la loro comunità.
E’ un progetto ambizioso — l’intero complesso si sviluppa lungo 3 km quadrati — ma, a mio giudizio, non completamente riuscito. L’unione di una architettura moderna con le rovine antiche, risalenti al 5 secolo A.C., non è sempre armonica e, seppur interessante per un uomo occidentale che vuole scoprire questa cultura, ne indebolisce la spiritualità.

Ma il viaggio e’ frenetico: dopo Loumbini ci spostiamo subito verso Chitwan: uno dei più grandi parchi naturali del subcontinente indiano. Ma qui mi sorvolo, perché dovrei raccontarvi una storia triste: non è la stagione ideale per visitare il parco, perché l’erba alta rende difficile scovare gli animali. E così io volevo immortale la tigre del bengala e invece mi devo accontentare delle sue orme sul terreno e di alcuni cerbiatti.

Siamo quasi giunti alla fine del viaggio: la prossima tappa e’ la valle di Kathmandu e la speranza di avvistare il monte Everest. Poi sarà tempo di tornare in Europa.

QUINTA TAPPA: LA VALLE DI KHATMANDU, IL MONTE EVEREST E RITORNO

E siamo giunti quasi alla fine del viaggio, ma prima di tornare in Europa ci aspettano ancora un paio di giorni per visitare la capitale del Nepal e la sua valle.

Kathmandu è una città di circa 3 milioni di abitanti, cresciuta in modo caotico e disordinato. La sua popolazione cresce di circa il 4% ogni anno: più di ogni altra città asiatica. E così il traffico e l’inquinamento, che a fine giornata ti raschia la gola, la scarsità di acqua, che obbliga il razionamento in molti quartieri, e la sporcizia, che, certo, è una caratteristica comune a molte città, non solo asiatiche, la rendono un luogo inospitale, non facilmente vivibile. Insomma, Kathmandu non è bella, ma compensa questi suoi limiti con due enormi pregi: il fascino della sua storia e la bellezza della natura che la circonda.

La sua storia è quella della capitale del regno del Nepal, di una città crocevia di religioni e culture, dove induismo e buddismo convivono in armonia, dove palazzi raffinati si stagliano di fronte a palazzi con i muri in mattone e tetti di lamiera, dove l’artigianato tradizionale convive con boutique di grandi catene per i turisti.

Mentre la sua natura è quella di una città che si sviluppa alle pendici delle Himalaya, di fronte al massiccio dell’Everest.

E riguarda proprio questa vetta il ricordo più bello di questo viaggio.

Non avendo potuto fare il trekking fino al campo base, ho deciso di ammirarlo almeno attraverso un volo panoramico. Sveglia prestissimo, perché il volo parte alle 06:30 in modo da raggiungere la vetta, quando il sole non è ancora alto e il cielo limpido. L’aereo è piccolino, piccolino, ad elica, 16 posti in totale; l’avio linea è Buddha Air, non proprio un gigante dell’aria. Ma il tutto è comunque ben organizzato: il volo dura un’ora, il cielo è cristallino e la vista dell’Himalaya è davvero una grande emozione. Non so nemmeno descriverla bene, perché non si tratta solo del paesaggio, che supera le aspettative ed è davvero imponente, ma anche il simbolo che questa montagna rappresenta, la leggenda della sua conquista.

Quasi 300 persone hanno perso la vita durante l’ascesa alla vetta, che ha rappresentato insieme alla conquista del polo nord e del polo sud, l’ultima grande scoperta geografica dell’uomo durante il secolo scorso. E pensare che la sua importanza fu una scoperta quasi casuale; inizialmente gli inglesi non avevano la piu’ pallida idea di trovarsi di fronte al tetto del mondo e lo chiamarono, genericamente come se fosse una montagnola qualsiasi, Cima XV. E anche quando si accorsero della sua altitudine, alla fin fine decisero di dargli il nome di un burocrate dell’impero Sir George Everest. E questo nome gli rimase, sebbene i toponimi in tibetano (Chomolungma — madre dell’universo) e in nepalese ( Sagaramāthā — (dio del cielo) evochino molto meglio la sua grandezza e la sua maestosità.

Ma è tempo di andare e mentre scrivo queste righe dal volo diretto verso Doha, saluto con il naso appicciato al finestrino queste montagne e il popolo nepalese che ci ha accolto con la semplicità di un sorriso in questo bellissimo viaggio.

 

          

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