ALASKA:  THE LAST FRONTIER

Perché l’Alaska? Questa è stata la domanda ricorrente quando, ad amici e conoscenti, ho annunciato la meta del mio viaggio. In effetti, è una destinazione davvero lontana, fuori dagli itinerari dei tour operator e troppo grande, troppo inospitale per essere visitata con completezza da soli, anche nella stagione estiva. 

Dunque, se così è, perché l’Alaska? A mio giudizio, per diversi motivi.

Il primo. Perché rimane uno degli ultimi luoghi dove l’uomo è ospite della natura e non viceversa: in Alaska vivono circa settecentomila persone, in un territorio grande cinque volte l’Italia, che conta tre milioni di laghi e specchi d’acqua, molti dei quali non censiti. Le distanze sono tali che molti, invece dell’auto, pilotano un aereo o, meglio ancora, un idrovolante: non a caso, l’Alaska possiede, di gran lunga, il numero di licenze di volo più alto degli Stati Uniti, una ogni settemila abitanti.

Il secondo. Perché richiama il mito della frontiera: l’ambizione a spostare il confine un po’ più in là. Vale per i cercatori d’oro del Klondike, per Christopher McCandless di Into the wild o, ancora oggi, per gli esploratori e gli scienziati, che si avventurano nei posti più remoti.

Il terzo. Perché è un ponte fra mondi diversi. Geografico, innanzitutto, fra est e ovest; basta guardare il mappamondo: la Siberia è lì ad un passo, separata solo da quella stratta lingua di mare, larga 88 km, che è lo stretto di Bering. Ma anche all’interno del continente americano, dal punto di vista etnografico, è un melting pot di culture ed etnie diverse, dove convivono l’influenza dei nativi americani ed i tratti della massiccia immigrazione che, dagli Stati Uniti e dai quattro angoli del globo, ha popolato questa ragione durante il secolo scorso.  Un solo dato per spiegare questo aspetto: la lingua principale, ovviamente, è l’inglese; ma contemporaneamente si contano altri 21 idiomi ufficiali.

Tante ragioni quindi per non avere alcun indugio e imbarcarsi verso Anchorage. Il nostro viaggio consiste in un giro ad anello nella parte centro meridionale dello stato. Ed io proverò a raccontarvi le tappe principali del nostro itinerario. 

PRIMA TAPPA: IL DENALI NATIONAL PARK

La prima fermata è una deviazione verso nord per visitare il Denali National Park.

Ora io lo so: alla maggior parte di voi il monte Denali non dice nulla. Questa povera montagna, infatti, vive un po’ la stessa situazione di Gianfranco Zola. Voglio dire: tutti ricordiamo Baggio e Mancini; Totti e Del Piero.  Ma Zola, che pure – che cavoli – è stato un fior di giocatore, non lo ricorda nessuno. È stato messo in ombra dai suoi coetanei più famosi – non necessariamente più bravi- di lui. 

Ecco, per il Denali è un po’ così. Tutti conosciamo l’Everest; da millenni si parla del Monte Bianco; anche il Kilimangiaro è un nome famigliare. Ma il Denali? Chi conosce il monte Denali?

Eppure, parimenti a Zola che era un fuoriclasse col pallone, anche il Monte Denali è un campione fra le montagne. Alto 6190 metri, è la vetta più alta del Nord America e la terza più prominente al mondo. La storia della sua conquista è stata un’epopea: posizionato lassù, vicino al circolo polare artico, distante da tutto e da tutti, anche solo arrivare alle sue pendici, era una esplorazione degna di nota fino a pochi decenni fa. E scalarlo, non solo per le difficoltà tecniche, ma soprattutto per il freddo polare che ne attanaglia la vetta, è stata un’impresa.

Ora, ovviamente, tutto è più facile: si raggiunge il campo base con un biplano, che plana direttamente sul ghiacciaio. Ed è infatti questa la prima esperienza, insolita, del nostro viaggio: atterrare sul ghiacciaio del Denali. Non raggiugiamo il campo base, ma ci fermiamo ad un ghiacciaio posizionato ad una quota inferiore. Ciò nondimeno è ugualmente emozionante: volare fra le montagne della Catena dell’Alaska e atterrare su una lastra di ghiaccio, a bordo di un biplano, meglio di un aeroplanino, dotato, accanto alle ruote, di pattini che gli consentono di atterrare sul ghiaccio, vale il viaggio. O, meglio, nel nostro caso, vale la prima tappa. 

SECONDA TAPPA: IL KENNICOTT GLACIER

Conclusa la visita del parco del Parco del Denali, ci spostiamo verso sud: 600 km, durante i quali incrociamo, letteralmente, una manciata di auto e qualche decina di laghi. Ed è mentre attraversiamo lo Stato che annoto sul mio taccuino i primi flash, le prime riflessioni su questo viaggio.

Primo flash: in Alaska le strade sono dritte. Talmente dritte che, se devi andare da un punto A ad un punto B, distanti centinaia di chilometri, probabilmente ci arriverai cambiando direzione non più di un paio di volte. Molto diverso dall’Europa, dove la geografia e la densità abitativa, da secoli, obbliga a percorsi tortuosi. Banali differenze, direte voi, ma forse no. Se per andare da A a B devi solo tirare una linea dritta, magari anche difficilissima da tracciare perché la geografia è complicata e le condizioni impervie, affronterai i problemi del mondo in modo diverso — più lineare, più diretto — rispetto a popoli che sono costretti a percorsi più articolati.

Secondo flash: è tutto grande. Ma grande davvero. Le montagne e le pianure, gli hamburger e i cartoni del latte. Tutto grande; anche i cristiani (in altezza, ma anche in larghezza) sono grandi.

Terzo flash: il cielo è limpido anche quando piove. Questo è particolarmente difficile da metabolizzare per un uomo nato e cresciuto nella pianura padana, dove la nebbia (o l’inquinamento…) offusca il cielo anche nelle giornate limpide. Qui, no: l’orizzonte si staglia lontano, anche con nuvole gonfie di pioggia.

Mentre prendo nota di questi pensieri, arriviamo alla nostra destinazione. Si tratta della città di McCarty, chiamata anche la città fantasma per la presenza di una vecchia miniera abbandonata. È un villaggio di poche case con due attrazioni principali: il Kennicott Glacier e appunto l’ex miniera di rame.

Nella prima metà del 900 questa cittadina, isolata da tutto e da tutti, sostanzialmente anche oggi inaccessibile in inverno (le temperature arrivano a -50 C), forniva buona parte del rame mondiale. La sua storia è il racconto di un’epopea imprenditoriale o, a seconda delle prospettive, di una moderna forma di schiavismo. E il suo fondatore Stephen Birch è un personaggio a metà strada fra l’avventuriero e il capitano di industria. Di formazione ingegnere minerario, a 25 anni, decise di partire per il Klondike. Ma mentre era in cammino verso nord,  alzò lo sguardo e sulla superficie delle montagne accanto al Kennicott Glacier scorse un riflesso verde. Era il rame che rifletteva la luce solare. Per essere più precisi: la più grande miniera al mondo di rame. E così, finanziato da JP Morgan, trasportò in nave e a cavallo il materiale per le esplorazioni alle pendici del ghiacciaio. E iniziò ad estrarre il minerale. In pochi anni, la miniera di Kennicot impiegava 500 persone, fra minatori e personale amministrativo, per 7 giorni su 7 (unici giorni di riposo il Ringraziamento e Natale), 22 ore al giorno. Anche in inverno. Era vietato portare le famiglie, c’era una scuola (per i minatori), un ospedale, un bordello (spostato un po’ più in là, perché immorale, presumo). Si arrivava con la ferrovia, costruita appositamente per il trasporto del minerale: ai minatori veniva pagato, e poi detratto dagli stipendi, il costo del viaggio. E lo stesso veniva fatto per il viaggio di ritorno. Il costo totale non era a buon mercato, ma pari a due anni di salario. Presumo fosse una raffinata strategia aziendale per limitare il turn over del personale…

Ma comunque la si giudichi (io: male) è la storia di una grande avventura imprenditoriale: nel momento di massimo “splendore” questa miniera produceva il 25% della produzione mondiale.

Ora la cava è chiusa e il villaggio vive del turismo estivo alla città mineraria, la ghost town, e al ghiacciaio. Sebbene in inverno qui non abiti nessuno: le temperature sono troppo rigide e il luogo troppo inospitale. Non è una condizione rara a queste latitudini; la guida, anch’essa una lavoratrice stagionale che viene da Chicago, mi raccontava che sono poche le comunità stanziali; la maggior parte degli abitanti rimane qui solo per la stagione estiva. E chi vive qui tutto l’anno, risiede in piccoli centri isolati. Dove “isolati”, per capirci, significa questo: per partecipare al torneo scolastico di basket le squadre dei ragazzini si spostano in aereo. Oppure “isolati” significa camminare in un bosco e incontrare un alaskiano, che questi quasi sicuramente nello zaino ha una pistola o un fucile per difendersi dagli animali.

Ma sto divagando. Per noi è’ già tempo di dirigersi più a sud; inizia la parte marina, ma sempre ghiacciata, del nostro viaggio.

TERZA TAPPA: I GHIACCIAI SUL PACIFICO E LE KILLER WHALES

Arriviamo prima a Valdez e poi a Seward, dove trascorriamo alcuni giorni. 

Cioè, ci spostiamo dalle montagne al mare. Si, perché l’Alaska è una terra di mare; è contro intuitivo per noi, che l’associamo al freddo e associamo quest’ultimo alle montagne.  Ma è così. Noi italiani, quando immaginiamo il mare, pensiamo ad una infinita distesa blu, al caldo e al sole. Ma non tutti i mari sono così: quelli del nord sono cupi, grigi e le spiagge non sono dorate, ma sono anch’esse scure, talvolta innevate. L’oceano Pacifico di fronte all’Alaska non fa eccezione: è grigio e cupo. Ma con tonalità diverse dalle nostre: sono cresciuto in Val Padana e per noi questo colore è associato alla nebbia: monotono e sempre uguale. Il grigio dell’oceano in Alaska, invece, è colorato di mille sfumature: è un grigio limpido, che permette di guardare lontano.

Per me è stata questa, per diversi motivi, la parte più emozionante del viaggio. Ve ne racconto tre.

Il primo motivo è la pesca. Anche qui, noi italiani associamo alla pesca alcune caratteristiche ben precise: si pesca di notte, il nostro pescato, dalle sardine ai tonni, è vario e subito disponibile in pescheria. Anche la nostra cucina di mare è varia e profuma d’estate.  Ecco, in Alaska, è diverso. Prima di tutto si pesca di giorno, un po’ a tutte le ore, ma non di notte (presumo perché pericoloso); poi il pescato ha dimensioni enormi (gli americani. non si sprecano per le sardine) e consiste principalmente in due pesci soltanto: il salmone, qui presente in diverse sottospecie, e l’hallibut, una specie di sogliolone gigante che pesa anche 50 chili. . Infine, qui il pescato non si trova in pescheria, né nei supermercati, dove invece abbondano surgelati di ogni tipo. Ma il pescatore te lo sfiletta su un bancone improvvisato lungo la strada e gli americani lo ficcano in frigoriferi, portatili e giganti (si, lo so, sembra un ossimoro), per poi imbarcarlo così sul volo di ritorno verso casa, dove io li immagino surgelarlo, in un congelatore altrettanto enorme.

Il secondo motivo è il ghiacciaio. Più precisamente: il rumore del ghiacciaio, che si getta nel mare. Perché in Alaska i ghiacciai che finiscono nell’oceano sono numerosi e durante la stagione estiva, a causa delle temperature più elevate, interi blocchi di ghiaccio si staccano e cadono nell’oceano. Quando questo accade vieni sovrastato da un rumore, cupo e sordo, del quale non riesci a capire la provenienza, fin quando non sale di intensità e non vedi i blocchi di ghiaccio finire in acqua. Ecco, vi assicuro: il rombo del ghiaccio che si stacca e poi cade sembra letteralmente provenire da un’altra era geologica. Un’esperienza davvero primordiale.

Infine, l’ultimo motivo: le orche. Cetaceo di grandi dimensioni,vive generalmente in branco nei mari freddi. Ed è considerato il predatore più pericoloso degli oceani, non a caso chiamato, in lingua inglese, “killer whale”. Riuscire a vederlo è un evento raro: ci vuole molta fortuna. Ecco, è con questa premessa che verso la fine dell’ultima escursione, sotto quel cielo scuro e cupo di cui vi raccontavo, il capitano irrompe al microfono dicendo: “in front of you, you can view some killer whales”.  In verità la descrizione non era precisa: siamo letteralmente circondati; di fronte, a destra, a sinistra ci sono famiglie di orche con i piccoli, che si immergono e riemergono con il tipico sbuffo di acqua dei cetacei. Saranno state più di una decina, tanto che anche il capitano, stupito, dice che stiamo vivendo un’esperienza molto rara, degna di un documentario del National Geographic: probabilmente alle famiglie che vivono in quella zona si sono aggiunte orche che vengono da lontano, non stanziali.

QUARTA TAPPA: IL KATMAI NATIONAL PARK

Ed è con questa emozione ancora viva che affrontiamo l’ultima tappa del viaggio, forse la più suggestiva: la visita al Katmaj National Park. 

Qui vivono circa 2000 orsi bruni, di cui circa 600 lungo il fiume Brooks al centro del parco. È un territorio raccontato da molti documentari del National Geographic e una delle destinazioni più ambite per chi, come me, ama la natura e la fotografia. Ed è raggiungibile solo via nave o con un volo in deltaplano di circa un’a ora e mezza. Noi scegliamo la seconda opzione, ma il primo tentativo non è fortunato: dopo due settimane di bel tempo, il giorno dell’escursione piove a dirotto e il nostro aeroplanino (si, la definizione, anche tecnicamente, più corretta è ancora una volta questa: aeroplanino) dopo mezz’ora di volo è costretto a fare dietro front. Ci riproviamo quindi il giorno successivo e questa volta alcuni di noi — io sono fra questi — sono più fortunati e riescono a raggiungere il parco.

Diversamente dai safari africani, dove è severamente vietato uscire dalle automobili, qui l’accesso al parco è libero: tutto si svolge a piedi e ci sono anche diversi pescatori che gettano la loro lenza lungo il fiume (quel fiume – paura! – lungo il quale vivono 600 grizzly). Per questo i ranger ci istruiscono su come comportarsi: “Camminate in gruppo, parlate a voce alta, in modo da preallertare gli orsi della vostra presenza; e, qualora ne trovaste uno di fronte a voi, non correte perché sarebbe un comportamento da preda spaventata, ma rimanete fermi, parlate e non fate gesti improvvisi”.

Detto così, sembra imprudente. E forse lo è: io stesso durante la mia visita ho incrociato un’orsa con il suo piccolo nella parte non recintata del parco, che camminava a pochi metri da me. Però vi assicuro che non si ha la sensazione di vivere un’esperienza pericolosa: ci sono bambini con le famiglie, persone anziane, i ranger, pur non accompagnandoti, sono numerosi. E soprattutto, presumo, i grizzly sono abituati alla presenza umana e probabilmente hanno talmente tanti salmoni da papparsi che non pensano a te come a una preda.

Eh, sì, i salmoni. Che vita strana quella dei salmoni: nascono in acqua dolce, dove rimangono fino a quando non sono divenuti adulti. Poi migrano verso il mare aperto dove trascorrono qualche anno. Quindi, raggiunta la maturità sessuale, migrano di nuovo in acqua dolce e percorrono migliaia di km risalendo fiumi e saltando cascate. E quando sono arrivati al luogo di riproduzione i maschi, dopo avere fecondato le uova, muoiono per la fatica. Oppure vengono pappati dagli orsi lungo il percorso.

Ma questa è la teoria, la descrizione accademica. Tutto questo, visto dal vivo, fa impressione: osservi milioni di pesci che salgono la corrente; in alcuni torrenti sono talmente tanti che li puoi prendere con le mani (giuro: l’ho fatto). E vedi questi orsi che li aspettano li, in cima alla cascata, che li agguantano con la zampa ad un attimo dal raggiungimento della meta. Una vitaccia, davvero, quella dei salmoni.

Ma per noi è, più semplicemente, uno spettacolo indimenticabile. Quello che conclude il viaggio.

          

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