Confesso, questa volta, di essere rimasto vittima della sindrome da pagina bianca. Non è facile raccontare qualcosa di originale su un viaggio in Islanda. Perché questa terra negli ultimi anni è stata presa d’assalto dai turisti di mezzo mondo. E quindi siamo pieni di diari, resoconti, guide che ti spiegano come circumnavigare l’isola, come fotografare le aurore boreali o come avvistare le balene. Scrivere qualcosa di interessante, pertanto, non è facile. E quindi alla fine ho deciso di cavarmela così: più che concentrarmi sul viaggio (del quale, spero, parlino le mie foto), provo a raccontarvi qualcosa del paese, di quel (poco) che ho visto o letto in questo in settimane.

Oggi vi parlerò di geostrategia. E, quindi, della guerra del merluzzo.

Ma per farlo è necessario partire da lontano; precisamente dalla geografia e dalla posizione dell’Islanda sulla cartina geografica. Tecnicamente l’Islanda non sarebbe una terra artica, definendo con questo termine quelle terre che oltrepassano il circolo polare artico: solo qualche isolotto disabitato del suo territorio oltrepassa questo limite. E anche dal punto di vista antropologico, la popolazione islandese – tutta emigrata e non discendente da ceppi autoctoni – non si è mai pensata come tale.

Tuttavia, dal punto di vista politico e strategico, senza dubbio l’Islanda è un paese artico e beneficia di questa sua collocazione: posizionata in mezzo all’atlantico sotto la Groenlandia e il Polo Nord, con il Canada e gli Stati Uniti ad ovest, i Paesi Nordici ad Est e la Gran Bretagna a sud, l’Islanda è fondamentale per il controllo delle rotte atlantiche, delle le rotte polari (sempre più dischiuse per buona parte dell’anno a causa del cambiamento climatico), per le telecomunicazioni e, da ultimo, per la difesa degli Stati Uniti, di cui costituiscono, insieme alla Groenlandia, una naturale proiezione strategica verso est. Non è un caso che fin dagli anni quaranta l’Islanda faccia parte della Nato, abbia ospitato sul suo territorio truppe americane fino a pochi anni fa e sia legata all’America attraverso un trattato bilaterale, che ne garantisce la difesa.

L’Islanda rimane un piccolo paese: conta solo 360000 abitanti, per lo più concentrati nella regione di Reikiavik, ed ha la più bassa densità abitativa del mondo: appena 3.52 abitanti per chilometro quadrato. Non ha un esercito, ma solo una guardia costiera. Eppure, le sue élite sono ben consapevoli dell’importanza strategica, che le dona la sua posizione geografica e, intelligentemente, negli ultimi cinquantanni hanno saputo sfruttarla, trasformando uno dei paesi più poveri d’Europa, nel più ricco del continente (quantomeno se consideriamo il reddito pro capite). Questa consapevolezza le ha consentito un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti (gli investimenti pro capite del Piano Marshall furono in Islanda il doppio rispetto agli altri stati beneficiari).

E, lungo gli scorsi decenni le ha permesso una libertà d’azione che altri paesi non hanno avuto. Per spiegarla, vi racconterò la storia della guerra del merluzzo. Detta così fa già ridere, lo so. Ma vale la pena conoscerla.

Le acque di fronte all’Islanda sono pescosissime, ricche appunto di merluzzo, e da sempre sono una zona contesa per la pesca fra la piccola Islanda e la Gran Bretagna. Questo attrito si è fatto via via più vivace nell’Ottocento con l’avvento dei pescherecci a motore e con l’utilizzo di tecniche di pesca via via più invasive; le tensioni crebbero fin quando l’Islanda richiese, che fosse impedito alle navi inglesi di pescare di fronte alle proprie coste, ritenendo che questo diritto dovesse essere lasciato in esclusiva ai suoi pescherecci. Fu pertanto, con fatica, siglato un trattato fra Danimarca (di cui l’Islanda faceva parte) e Gran Bretagna del 1901. Ma stabiliva un limite di pesca molto blando: i pescherecci inglesi non potevano avvicinarsi a più di tre miglia dalla costa islandese. Non molto, insomma.

Senonché negli anni cinquanta e sessanta del Novecento, forse non a caso proprio quando l’Islanda comincio a essere consapevole di essere un paese strategico per l’Alleanza Atlantica, il conflitto deflagrò nuovamente in tutta la sua drammaticità.

L’Islanda, unilateralmente, estese il limite di pesca prima da 4 miglia a 12 miglia (prima guerra del merluzzo), poi da 12 miglia a 50 miglia (seconda guerra del merluzzo) e infine da 50 miglia a 200 miglia (terza guerra del merluzzo) dalla sua costa.

Tutti e tre i conflitti ebbero uno svolgimento simile: la Gran Bretagna rifiutò il nuovo limite e inizio a scortare i suoi pescherecci con la Royal Navy (ripeto: la Royal Navy, quella che con l’ammiraglio Nelson sconfisse Napoleone. Quella che sconfisse gli U-Boot. Quella che fece lo sbarco in Normandia. Quella roba lì, insomma). Ma l’Islanda, che, ricordo, non ha un esercito, rispose e mobilitò la sua guardia Costiera. Ci furono tensioni, alcune navi da guerra inglesi furono speronate. Furono sparati alcuni colpi di cannone. A Reikiavik l’ambasciata inglese fu presa a sassate e vennero interrotte le relazioni diplomatiche con il Regno Unito. Infine, il governo islandese minacciò di uscire dalla Nato e di chiudere la base aerea di Keflavik, lasciando pertanto sguarnito il fronte artico con l’Unione Sovietica.

E, alla fine, l’Islanda vinse: fu stabilito e sancito con uno specifico trattato con la Gran Bretagna nel 1976, che la pesca entro un limite di 200 miglia nautiche dalla costa fosse esclusivo diritto dei pescherecci islandesi. E tale principio fu poi codificato da un trattato delle Nazioni Unite e reso valido per ogni nazione sovrana. Un attonito Henry Kissinger, a proposito delle guerre del merluzzo, parlò di “tirannia del più debole”. O forse, sarebbe più corretto dire, della vittoria di un piccolo paese che seppe sfruttare con intelligenza il vantaggio della sua posizione strategica.

Ecco questo vantaggio strategico esiste ancora oggi. Ed è alla base del benessere che questo piccolo paese è riuscito a conquistarsi. Ricordiamocelo, quando sorridiamo all’idea di future contese fra Danimarca e Stati Uniti e allo sbarco dei marines in Groenlandia. Certo, questa è un’altra storia, direte. Ma forse no.

Le altre tappe, che raccontano il viaggio in islanda sono disponbili su Medium

 

          

 
 
 
 
 
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