PRIMA TAPPA — L’INGEGNERE DEI FARI E LO SCRITTORE. LE HIGH LANDS
Quando decisi di visitare la Scozia percorrendo l’intera strada costiera delle Highlands, la regione scozzese più settentrionale, cioè l’estremo limite del Regno Unito, mi aspettavo di incontrare lungo il mio cammino un sacco di castelli. E, infatti, di castelli ce ne sono tanti.
Ne ho visti di tutti i tipi: arroccati su una scogliera o in riva ad un lago; in rovina o appena risistemati; abbondati o anco
ra abitati, oppure trasformati in alberghi di lusso; cupi e spazzati dal vento gelido dell’Atlantico oppure sorridenti e fatati; alcuni ingentiliti da giardini verdi e pieni di fiori, altri austeri e solitari fra le rocce. Però, alla fine, non ricorderò i castelli. Ricorderò i fari. Che, se vogliamo, sono dei castelli anch’essi, ma di tutt’altro genere e destinati a tutt’altro scopo.
In Scozia ci sono 215 fari. La maggior parte progettati da una sola famiglia. Con un cognome importante: Stevenson. E con un capostipite con un nome altrettanto noto: Robert. Robert Stevenson. Non Robert Luis, che fu suo nipote, e diventerà uno dei maggiori scrittori ottocenteschi, l’indimenticato autore de “L’isola del tesoro” e de “Lo strano caso del dottor Jeckyll di Mr Hide”. A suo modo una pecora nera, dato fu il solo membro della famiglia la cui vita non fu dedicata ai fari. Per natura avventuriero e romantico, malato di tubercolosi, visse per i suoi due amori, che non hanno nulla da spartire con i fari: la letteratura e una donna di nome Fannie, che inseguì fino a San Francisco, sposò e portò nei posti più strampalati, compresa una miniera di argento, fino a morire presso le isole Samoa, letteralmente agli antipodi rispetto alla Scozia. Ma viaggiando lungo le strade strette delle Highlands, fra scrosci di pioggia e folate di vento, lo Stevenson che ti abbaglia di continuo, letteralmente, con la luce dei suoi fari è il nonno dello scrittore, Robert Stevenson.
Oggi ci sono i radar, il GPS, carte nautiche dettagliatissime. I fari sono tutti meccanizzati e elettrificati; non c’è ormai più il guardiano del faro e molti di essi sono stati trasformati in alberghi di lusso. Ma tre secoli fa solo i fari potevano salvare da rovinosi naufragi. Soprattutto lassù, in Scozia, le cui coste sono fatte di scogliere impervie, di rocce affilate che affiorano e scompaiono fra le onde nelle burrasche dell’Atlantico o del Mar del nord, due mari scuri, spazzati da venti gelidi, bui per buona parte dell’anno e mai tranquilli. Navigare in queste acque non era un affare per deboli di cuore. Avvicinarsi a queste coste, riuscire ad entrare nell’insenatura del porto di Edimburgo era rischioso come sottoporsi alla roulette russa. I disastri e i morti erano continui: in una sola notte di tempesta, una delle più terribili della storia della navigazione, nel 1789, naufragarono 70 imbarcazioni e in uno degli incidenti più tristemente celebri, il 26 dicembre 1803, morirono più di cento marinai imbarcati in una nave da guerra della flotta imperiale.
C’era un disperato bisogno di luci che orientassero la navigazione e avvertissero dei pericoli. E’ proprio dalla sciagura avvenuta nel giorno di Santo Stefano del 1803 che ebbe inizio la fortuna dell’allora giovane e sconosciuto Robert Stevenson: sua maestà accettò infatti di finanziare il suo primo avveniristico progetto, quello del faro di Bell Rock, previsto proprio sulle rocce sulle quali si era appena infranta la nave britannica.
La sua costruzione nel mare aperto, molto al largo, fu una epopea, che meriterebbe da sola un articolo: sorge, incredibilmente, su uno spuntone di roccia a 11 miglia di distanza dalla costa e la costruzione durò cinque anni dal 1807 al 1811. Oggi questo prodotto della genialità umana, ancora perfettamente funzionante così come fu costruito due secoli fa, è giustamente considerato una delle sette meraviglie del mondo industriale. E con il faro di Bell Rock inizia la storia della famiglia Stevenson, i più famosi costruttori di fari della storia. Nella sola Scozia, ma ve ne sono anche all’estero, 90 fari su 215 furono costruiti da questa famiglia. Ancora oggi, fuori da molti di essi, una lapide ricorda il loro capostipite: Robert Stevenson, ingegnere, imprenditore e scienziato. Il più famoso costruttore di fari della storia.
SECONDA TAPPA: EDIMBURGO E IL FRINGE FESTIVAL
Edimburgo non è una bella città, ma mi è piaciuta molto. Sembra un ossimoro, ma non lo è.
Mi spiego: non amo particolarmente le città britanniche: spesso sono sporche e il colore dominante è il grigio. Ma non quel grigio, quasi nero, di altre città europee — pensate per esempio a Praga –, che le rende cupe, un po’ maledette, ma ricche di fascino. No, il grigio delle città inglesi ricorda la rivoluzione industriale, le ciminiere delle fabbriche, le miniere di carbone e le birre al pub dopo una interminabile giornata in fabbrica. Non è tenebroso, è solo grigio, e, talvolta, semplicemente brutto.
Ed Edimburgo non fa eccezione. La via principale è il Royal Mile, che dal palazzo reale Holyroadhouse conduce al Castello. Questa strada, ora disseminata di negozi per turisti, pub e ristoranti, a dispetto del nome regale, ha in verità una storia molto democratica. Nel XVI e nel XVII secolo,quando Edimburgo si sviluppa, ne era il centro nevralgico con i suoi palazzi lunghi e stretti, alti circa setto o otto piani, in pratica dei grattacieli per l’epoca. Democratica, dicevo, perché pur essendo la via principale della città non era dedicata ai ricchi, ma vi vivevano, ammassati in questi palazzi, ricchi e poveri, insieme: i poveri sotto il tetto, vittime del freddo e del vento gelido, o nei piani più bassi, dove la puzza, la sporcizia e i topi la facevano da padrone, i ricchi nei piani centrali dove, il freddo era sopportabile e il lezzo della strada un po’ attenuato.
Questa è la via principale e più bella della città e, lo so, non ne sto facendo una bella descrizione. Ma, vi dicevo, Edimburgo in estate, è una città piacevole: divertente e ricca di cultura. Vive all’aperto, sfruttando al massimo questi mesi di luce e di (?) caldo e, in particolare, organizza Festival ed eventi che attraggono turisti da tutta Europa.
Fra questi il principale è il Fringe Festival, il festival delle arti più importante del mondo. Ma facciamo un passo indietro, storico e personale.
Storico: Edimburgo è una città britannica, certo, ma è anche una città del nord Europa, alla stessa latitudine di Mosca e più vicina alla Norvegia che alla Francia. Questa vicinanza ha avuto influenze culturali — si pensi alla cultura celtica — e nelle abitudini. D’inverno la luce è poca: il sole a dicembre sorge alle 8:30 e tramonta prima delle 16, fa freddo e storicamente c’era poco da fare se non scaldarsi con un whisky in qualche taverna; in estate invece è inondata di luce: il giorno del solstizio è lungo più di 18 ore. E quindi gli scozzesi si riversano per le strade e nei parchi. E negli ultimi decenni hanno trasformato Edimburgo nella città dei festival.
Il più importante è l’International Edinburgh Festival, ma il più sexy, il più anarchico e il più stimolante è il Fringe Festival. Nasce nel 1947 da una protesta: alcuni artisti, esclusi dal programma principale dell’International Festival, decisero di improvvisare alcuni spettacoli a margine, per le strade. Piacque. E l’anno successivo ripeterono l’esperimento. Piacque ancora. E l’anno seguente ci provarono una terza volta. Fino ad oggi. Oggigiorno il Fringe Festival dura oggi più di tre settimane, richiama più di un milione di visitatori e ha ormai una sua organizzazione, non tutto è improvvisato. Ma ha mantenuto lo spirito originario, anarchico e ribelle, con gli spettacoli ufficiali, che riempiono i teatri e i parchi con un allestimento leggero e minimal e gli artisti al centro della scena. E con giocolieri, saltimbanchi, attori e musicisti, che improvvisano le loro performance a tutte le ore del giorno lungo il Royal Mile e le via della città.
Il passo indietro personale, invece, è questo: ecco, il punto è che io sono un ignorantone e non lo sapevo. Quando ho organizzato questo viaggio, all’ultimo minuto, ero più interessato a gironzolare per le Highlands,che a visitare le sua capitale. E i giorni ad Edimburgo li avevo curati distrattamente. Non sapevo che l’avrei trovata invasa di turisti, spettacoli teatrali improvvisati e feste che nascono nei pub e proseguono nelle strade. E sono quindi passato dagli isolati fari delle Highlands ad una città invasa dalla più varia umanità. E’ stata una piacevole sorpresa, e mentre sorseggio l’ultima Tennent’s di questo viaggio, orecchiando un concerto improvvisato lungo il Royal Mile e guardando distratto sul cellulare le notizie che giungono dallo Stivale (…), rifletto su come il grigio possa essere colorato dalla fantasia e della gioia delle persone. E a come questo dovrebbe essere una piccola e grande lezione, individuale e collettiva, per tutti noi.